I caribou delle Alpi: sulle migrazioni dei cervi

di Maddalena Di Tolla Deflorian

8 marzo 2015

Sono fra gli animali archetipici delle Alpi. Eppure di loro il grande pubblico non conosce molto, oltre i vistosi palchi di corna e i potenti bramiti. Il cervo è il più grande ungulato delle Alpi e necessita di ampi spazi per i propri spostamenti. Probabilmente la maggior parte delle persone però non sa che i cervi compiono delle migrazioni, che superano anche i 30 chilometri. Insomma, sono un po’ i caribou di casa nostra.

Cervo_inverno

La scienza ha iniziato a studiare questo fenomeno intorno agli anni trenta del Novecento. I primi studi ebbero luogo in Svizzera e oggi si continua a studiare. Martedì sera ha presentato una interessantissima relazione in merito al Museo di Scienze naturali di Bolzano Luca Pedrotti, grande esperto di ungulati e coordinatore scientifico di quel Parco Nazionale dello Stelvio dove la questione cervi è da anni un tema problematico al centro del dibattito. Per monitorare il fenomeno nel Parco dello Stelvio negli anni sono stati catturati e marcati oltre 200 animali e applicati 80 radiocollari.

Abbiamo chiesto a Luca Pedrotti di raccontarci le conoscenze che ha accumulato in anni di studio.

Pedrotti, per quale ragione un animale come il cervo è portato a compiere una migrazione?

«I cervi compiono degli spostamenti migratori stagionali per ottimizzare l’uso delle risorse o, detto con altre parole, il loro budget di energia. Sappiamo che solo una percentuale di una certa popolazione di cervi si sposta, mentre un’altra parte della stessa rimane costantemente nelle stesse zone. Anche i fattori climatici e il disturbo umano possono indurre o influenzare la migrazione.

Teniamo presente il dato che un tempo il cervo frequentava abitualmente i fondovalle delle Alpi, non essendo una specie tipica delle zone in quota. Nel tempo però i fondovalle sono diventati troppo urbanizzati, disturbati e frammentati (impedendo i movimenti degli animali) per i cervi».

In alcune valli, anche nel Parco Nazionale, le densità locali sono diventate un elemento critico. Gli spostamenti naturali sono in qualche modo ostacolati?

«Pensiamo alla Val Venosta, ad esempio. Là la densità è cresciuta in una prima fase più dentro il Parco, per l’ovvia ragione che al di fuori dell’area protetta si caccia e ovviamente i cervi scelgono le zone più sicure. Dopo di che una gestione interna al Parco dei cervi, con un prelievo misurato, ha cambiato la situazione, portando ad una maggiore densità di cervi fuori del confine dello stesso. A questo fenomeno si è sovrapposto un ostacolo alla capacità di spostamento naturale dal versante a nord verso quello a sud, perché sono presenti molte recinzioni in Val Venosta, a legittima difesa delle coltivazioni».

Cosa succede alla capacità migratoria dei cervi con il cambiamento del clima?

«Una serie di anni con inverni miti produce l’effetto della perdita della memoria storica delle rotte migratorie, utili per raggiungere quartieri di svernamento favorevoli, tipicamente tramandate soprattuto di madre in figlia. Quando arriva un inverno particolarmente duro si assiste quindi ad una elevata mortalità. Ad esempio nell’inverno 2008-2009, particolarmente nevoso e freddo, nel Parco dello Stelvio morirono di fame e stenti, si stima, 700 cervi. Le nostre stime ci dicono che per ora questo non comporta un rischio per la specie. La popolazione si è ripresa negli anni successivi. Pensiamo anche al caso di Yellowstone: in quel Parco nazionale americano negli ultimi 15 anni si sono registrate temperature medie in crescita e una minore piovosità. Il risultato sono pascoli estivi, verso i quali i cervi migrano, con una ridotta qualità».

Il ritorno naturale del lupo potrebbe avere qualche effetto su queste migrazioni?

«È presto per dirlo, le relazioni dentro gli ecosistemi sono complesse. Possiamo però affermare che in base ad altri casi il ritorno dei grandi predatori contribuisce in generale a riequilibrare l’uso del territorio da parte degli ungulati. Inoltre, con l’aumento dei predatori, aumenta il costo della migrazione. Possiamo quindi aspettarci ragionevolmente una riduzione della concentrazione di cervi in aree particolari, che possono diventare un problema sociale ed economico, per i danni ad agricoltura e patrimonio forestale».

I cervi dunque migrano, non conoscendo confini. Cosa possiamo dire della situazione nelle Alpi e nel Parco, in particolare?

«A nord delle Alpi naturalmente gli inverni sono mediamente più rigidi e dunque molti più cervi sono spinti a migrare. Ci sono delle differenze legate alle caratteristiche dei luoghi, dunque. In generale tuttavia dobbiamo pensare che nelle Alpi, a differenza del caso americano di Yellowstone, abbiamo un’elevata densità insediativa e di attività economiche anche alle medie quote. Si tratta quindi di studiare i fenomeni da un punto di vista tecnico e poi capire come mitigare i conflitti sociali con strumenti adeguati.

Ricordandoci che in passato abbiamo sterminato il cervo italiano e oggi nelle Alpi abbiamo cervi arrivati dalle popolazioni occidentale e orientale (quella definita Danubiana – dei Carpazi). Di originale in Italia ci resta il cervo della Mesola… La specie comunque non è a rischio, anzi, è in crescita, grazie alla ripresa dagli anni Cinquanta con una migliore gestione venatoria e un importante contributo delle aree protette.

Le stime dell’Ispra attestano 80.000 cervi in italia. Nel Parco dello Stelvio (e zone limitrofe) ne contiamo (in primavera) circa 10.000, ovvero un quarto dei cervi presenti nelle Alpi. Nel Parco vi sono varie popolazioni di cervi, che entrano ed escono dal confine dell’area protetta. La situazione attuale è il frutto delle scelte gestionali del passato e vigenti. D’ora in poi vedremo anche in modo più netto le conseguenze del cambiamento del clima».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

pubblicato sul quotidiano Trentino e Alto Adige in data 8 marzo 2015

Rückkehr – ritorno. Storie di orsi bruni e lande trentino – altoatesine.

Rückkehr – ritorno. Storie di orsi bruni e lande trentino – altoatesine.

credito fotografia:l’orsa ritratta è Dj3, presso il recinto del Casteller di Trento – scattata da Maddalena Di Tolla Deflorian in data 24/12/2012

Rückkehr – ritorno. Una parola, due lingue, due territori attigui eppure diversi che ora, sulle tracce degli orsi bruni (ma anche dei lupi, per altre vie) sono costretti a trovare una visione comune di biodiversità, uso del territorio, risoluzione dei conflitti.

Così gradualmente anche in Alto Adige si affaccia la divulgazione sul ritorno del plantigrado, dopo che per qualche tempo prevaleva la diffidenza del potere locale, certo non propriamente amico del popolo di ritorno ursino.

Mercoledì scorso al Museo di scienze naturali Giorgio Carmignola e Davide Righetti, dell’Ufficio caccia e pesca della Provincia di Bolzano, hanno raccontato ad un nutrito e interessatissimo pubblico, con tanti giovani, cosa è accaduto da quando i famosi dieci orsi sloveni del Progetto Life Ursus furono liberati nella mitica Val di Tovel, in Trentino, nel cuore del Parco naturale Adamello Brenta. Perché ovviamente gli orsi si muovono, e non rispettano i confini.

E, come ha rilevato più volte Righetti nella sua esposizione, dai cugini trentini c’è forse molto da imparare, nella gestione di questo ritorno complesso, che tocca l’immaginario collettivo profondo e smuove paure e passioni.

Nel 2001 fu l’orsetta Vida a fare da testimonial positivo in landa sudtirolese, arrivando poi fino al bellunese, e finendo anche investita, con tanto di zampa rotta, per poi essere trasferita nuovamente tra le montagne del trentino Brenta, salvo poi, pervicacemente incuriosita dall’est, far ritorno oltre confine e spingersi fino in Austria. Vida scomparve nel 2002.

Nel 2003 e nel 2004 non si registrarono spostamenti di orsi, mentre nel 2005 arrivò Jj2 (figlio di Jurka e Joze), che visitò il meranese, la zona dello Stelvio, l’Alta Val Venosta, Svizzera, l’Austria. Lui fu come tutti i giovani maschi erranti più impattante della innocente Vida, procurando diversi danni.

Nel 2006 fu la volta dell’orso Jj1, il fratello del primo, poi denominato dai suoi fans “Bruno”, successivamente abbattuto in Germania, con tanto di polemiche feroci.

Nel 2007 passarono 4 individui e da quell’anno nacque la coscienza di dover dotare la Provincia di strumenti adeguati e regolari per il monitoraggio, la verifica dei danni e tutto il resto.

Dal 2007 al 2012 l’Ufficio caccia e pesca ha rilevato geneticamente 14 individui diversi di orso. Si stima che la popolazione attuale complessiva sia di 43 – 48 orsi fra Trentino, Alto Adige, Veneto, Lombardia. Nel 2012 sono stati rilevati 5 individui, che frequentano prevalentemente le zone pedemontane della Mendola, ma anche le zone di Appiano o Proves e anche la Val d’Ultimo. Dopo Vida non risultano transiti di femmine, ma soprattutto di maschi erratici, giovani e subadulti (di età media intorno ai 3 – 4 anni).

La fedeltà al territorio è di circa 1,7 anni.

Dal 2010 la Provincia si è dotata anche di fototrappole, e dal 2005 erano già partiti i monitoraggi genetici (con campioni di pelo, soprattutto, nel numero di 105 su un totale di 129).

A scanso di polemiche sui costi, Righetti ha anche ricordato che sono solo due le persone in Provincia che lavorano sul monitoraggio dell’orso, a tempo parziale. In Trentino gli addetti sono molti di più.

Il tecnico ha però spiegato “Sappiamo molto della vita degli orsi in Trentino. Sappiamo molto poco di come usano il territorio qui da noi, in Alto Adige, dove certo la montagna è abitata con presenza di masi in modo più diffuso. Per questo sarà bene studiare, per ragioni legate alla conservazione della specie ed anche per ridurre i possibili danni o i conflitti”.

Alla voce danni i conti sono questi: circa 80.000 euro spesi nel periodo 2007/ 2012 fra alveari distrutti e bestiame predato, a cui sommare poco più di 26.000 euro per investimenti stradali con danno ai veicoli, oltre che all’orso.

Gli eventi dannosi all’anno sono circa 20/22.

Intanto la primavera incombe, e nuovi movimenti avvengono nei boschi.

Ad esempio intorno ai grattatoi, alberi particolarmente amati dagli orsi, dove è possibile raccogliere campioni di pelo, e oggetto anche di una tesi di laurea di uno zoologo trentino, e di uno studio del Parco naturale Adamello Brenta.

Alla fine Davide Righetti ha mostrato le ultime foto scattate proprio pochi giorni fa, in una località non rivelata: sono immagini di una pista di impronte di un orso svegliatosi da poco, dopo questo inverno lunghissimo.

Il pubblico sembrava molto ben propenso a seguire le sue tracce.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Alto Adige in data 16/04/2013 – foto scattata da Maddalena Di Tolla Deflorian, in data 24/12/2012, l’orsa ritratta è Dj3, presso il recinto del Casteller di Trento)

Lupa morta rinvenuta nella Lessinia

Da 150 anni una coppia di lupi non solca il territorio fra la Lessinia e le Alpi trentine.Come noto, solo un paio di individui di lupo italico si stanno occasionalmente muovendo in Trentino e solo da poco tempo una coppia si stava muovendo in Lessinia.

Pochi giorni fa è stata rinvenuta morta (si teme avvelenata)  una lupa e si stanno ancora aspettando le conferme che sia davvero il veleno il suo killer. Non si ha ancora conferma che si tratti della stessa femmina che da qualche tempo si accompagna con il famoso lupo maschio Slavc. Se fosse così, la già esigua speranza di avere una cucciolata di lupi a breve sarebbe azzerata. Il ritorno del lupo è una sfida ancora più difficile rispetto a quello dell’orso, perché il lupo affronta irrazionali barriere ataviche nelle menti di tanti umani. Possiamo solo augurarci che questa morte faccia riflettere molti e cambiare mentalità a qualcuno. Lunga vita al lupo.

Orsi: bentornati senza false paure

Orsi oggetto di polemiche sterili e infondate, da parte di pochi che però sui giornali fanno rumore. Serve razionalità e profonda consapevolezza di cosa sia l’ecosistema. In realtà le poche rilevazioni esistenti mostrano che la maggioranza dei trentini gradisce il ritorno degli orsi nei nostri boschi.

Ecco una mia risposta a argomentazioni sbagliate, pubblicata dal quotidiano L’Adige a fine agosto 2010.

L’Adige di domenica 29 agosto pubblicava una lettera di Enrico Sisler, che sosteneva l’opportunità di ridurre il numero di orsi in Trentino, rimpatriandoli in Slovenia. La tesi era motivata con la presunta incompatibilità tra uomini e orsi nelle Alpi e con la presunta pericolosità degli orsi.

La lettera contiene innanzitutto un dato falso: per Sisler gli animali in libertà sarebbero 70. Invece il numero di orsi presenti in Trentino (Rapporto Orso della Provincia di Trento, dicembre 2009) è di minimo 25 individui, massimo 30.

Nel corso del 2010 sono accertate 4 cucciolate, è probabile però che vi siano state delle morti e che alcuni orsi si siano spostati. A fine anno avremo un dato preciso ma il numero non sarà molto diverso.

In ogni caso è impossibile arrivare ai 70 orsi inventati da Sisler: gli orsi non si moltiplicano per incanto!

La lettera paventa poi la pericolosità degli orsi. Un orso è certo un animale potenzialmente pericoloso per la sua mole ma quella di una aggressione ai danni dell’uomo è un’ ipotesi remota. Questi sono i dati di una ricerca su scala europea (sito PAT):
In Italia, nelle Alpi e negli Appennini, non sono documentate aggressioni deliberate nei confronti dell’ uomo negli ultimi 150 anni. (Aggiungo: dal 2000 non si registra alcun incidente con gli umani causato dagli orsi presenti in Trentino che spaziano tra Alto Adige, Veneto e altri stati). Uno studio scandinavo basato su numerose documentazioni e testimonianze, ha evidenziato che in Svezia l’ultima vittima di un attacco risale a più un centinaio di anni fa, un cacciatore di orsi attaccato da un individuo ferito. Tra il 1976 e 1995, ci sono stati 21 incontri, con 7 feriti: di questi, 6 erano situazioni di caccia e in un caso fu coinvolta una femmina con i piccoli. Ancora, nel 1998, si è registrato in Finlandia un incidente mortale occorso ad un uomo mentre faceva footing. Nel Progetto Scandinavo sull’Orso bruno, sono stati documentati negli ultimi 15 anni in Svezia (popolata da circa 2.000 orsi) 114 incontri, nella maggior parte dei quali l’animale è scomparso, senza attacco alcuno, appena percepita la presenza umana. In Russia, in uno studio specifico, sono stati documentati 704 incontri negli ultimi anni; nessuno di questi ha implicato aggressività o ferimenti. Un altro studio, in Austria, dove è stata realizzata una immissione di orsi sloveni, tra il 1989 e il 1996, ha registrato 516 casi di incontro, tra cui 5 “falsi attacchi”, ma senza alcuna conseguenza.” Insomma, è molto più pericoloso guidare in autostrada che muoversi nei boschi abitati dagli orsi!

Sisler sottolineava la natura carnivora dell’orso per solleticare le nostre paure. In realtà l’orso bruno è un animale onnivoro opportunista, con una tendenza alimentare vegetariana.

Il 64% della dieta degli orsi studiati in Trentino è fatta di vegetali, il 6% di carcasse, il 17% di insetti. Solo il 13% è composto da altro (dati PAT).

Le predazioni ai danni di animali da allevamento sono -rispetto al numero di orsi- poco numerose. E’ un fenomeno da tenere sotto controllo ma limitabile, grazie all’esperienza, usando cani da guardiania e adeguate recinzioni.

L’ ipotesi finale di Sisler , poi, di reimpatriare gli orsi in Slovenia è priva di senso. Gli orsi di provenienza slovena erano 10, alcuni sono morti, altri in cattività (Yurka). Gli altri (la maggior parte) sono animali nati liberi, in natura e in Italia, protetti da norme internazionali, pertanto la Slovenia non ha alcun obbligo di accoglierli e l’Italia non può dislocarli come oggetti.

L’orso è una specie importante, fa parte da sempre dell’ecosistema alpino e del suo complesso equilibrio e appartiene da sempre al nostro immaginario. Anche il turismo – fondamentale per noi- non può che beneficiare dell’immagine di un territorio ancora capace di ospitare e rispettare un animale così simbolico, che l’Europa cerca di tutelare insieme a tutta la biodiversità.

Lavorare per l’orso deve significare lavorare per tutto l’ambiente. La conservazione di questa specie è solo un pezzo del necessario riequilibrio degli usi del territorio nelle Alpi e i costi sostenuti per questo impegno sono il minimo che possiamo mettere in campo, a fronte di una situazione ambientale compromessa.

Ricci e pipistrelli: come aiutarli

Ecco un sito e un centro recupero fantastici!

Dalla parte dei piccoli ricci e dei piccoli e utilissimi chirotteri (alias i pipistrelli)

Seguite il link e leggete

http://www.sosricci.it

Se trovate un riccio ferito oppure cucciolo (intorno ai 100/120 grammi) o che vaga di giorno prendetelo (usate i guanti per non ferire voi e perdere lui in malo modo), mettetelo in una scatola con acqua da bere e una borsa di acqua calda per evitare ipotermia e:

In attesa, effettuare sempre il primo soccorso:

  • mettere il riccio in un scatola alta, all’interno di una stanza,
  • non lasciarlo in giardino o peggio al sole,
  • se neonato (e fino a g 100 circa) mettergli una borsa d’acqua calda accanto o in mancanza una bottiglia di acqua calda (rischio di iportermia anche in estate!)
  • non lasciare in natura, anche nel dubbio, esemplari piccoli, che vagano di giorno o sera,
  • se si evidenzia la presenza di zecche  mettere qualche goccia di olio di oliva sulla cute e rimuoverle successivamente, con una pinzetta; eventualmente mettere sul dorso una goccia di Frontline per gattini (anche in presenza di pulci o acari),
  • se si rilevano uova di mosca (puntini grigio-biancastri) o larve (vermiformi), lavare con una soluzione di Betadine (1 parte) e acqua (2 parti).

Cosa mangia un cucciolo appena soccorso?

Se il peso é inferiore a g 130 circa, somministrare solo Esbilac ® (non sempre facilmente reperibile: farmacie, negozi per animali tipo Pet Discount oppure tramite corriere direttamente dai distributori di prodotti Chifa): non esistono sostituti del latte simili a questo.
Non utilizzare altri tipi di latte (in particolare non latte vaccino, neppure diluito, non surrogati di latte per altri animali o latte per bambini).

In attesa di Esbilac, in emergenza, si può usare, per un tempo breve (max un paio di giorni) latte di capra (recuperabile in quasi tutti i supermercati), che però non fa crescere l’animale, ma almeno, non provoca, di norma, intolleranze.

Esbilac va somministrato secondo lo schema presente sul sito (vai) o sul libro “Il riccio – ci sono anch’io” (vai).

Il riccio con occhi ancora chiusi necessita, dopo ogni pasto, di un delicato massaggio perianale, con la punta di un dito inumidita da olio di oliva o di mandorle, per stimolare l’evacuazione fecale ed urinaria.

Agli animali con peso superiore a g 120 va aggiunto, alla dieta, A.D. ® (di Hill’s), ogni 3 ore, con piccole porzioni di frutta a pezzettini.

L’acqua fresca non deve mai mancare, per uno spiccato rischio di disidratazione.

Contattare sempre il proprio veterinario, in particolare quando l’animale presenti ferite o appaia disidratato (aspetto di sacchetto sgonfio) o malato (poco vitale, non si chiude, barcolla, lo si incontra durante il giorno, …).

Riabilitazione?

Il riccio può essere riabilitato alla vita selvatica verso i g 700: il reinserimento in natura comporta un notevole calo ponderale (l’animale passa da una condizione di totale assistenza alimentare ad una, in cui l’approvvigionamento di cibo è solo parziale e l’esemplare deve cominciare a procacciarsi il cibo in autonomia e seppure in un’area protetta, dovrà cavarsela con le proprie forze).

Va sverminato intorno ai g 500, con prodotti per gattini (es. Milbemax giallo ®: 1\4 di compressa, da ripetere dopo 20 giorni), inoltre, va trattato con un antiparassitario, cosparso sul dorso (usare prodotti per gattini!).

Va lasciato in luoghi con punti fissi di acqua, con una casetta-rifugio (che sarà libero o no di utilizzare), in cui posizionare per alcuni giorni del cibo per gattini, vicino a cespugli con fiori che attirino gli insetti (loro cibo prioritario).
Giova ripetere che il riccio europeo è un animale selvatico e che pertanto non può essere detenuto, come animale da compagnia, con mezzi coercitivi (recinti, box, …), ma nulla vieta di offrire acqua, cibo, rifugio, in punti strategici, che l’animale sceglierà, secondo il proprio istinto, di utilizzare o meno.

Attenzione!

Non toccare i nidi di ricci con prole!     >>> La mamma quasi sempre abbandona immediatamente la cucciolata, se viene disturbata. O peggio si può assistere ad episodi di cannibalismo, se i riccetti vengono toccati con le  mani.

Se si devono spostare cataste di legna o effettuare lavori in giardini, orti, stalle e fienili, accertarsi, per quanto possibile, se vi siano tane di riccio con cuccioli; in caso positivo é meglio rimandare i lavori successivamente allo svezzamento e anzi portare nei pressi del nido acqua e cibo (i piccoli muoiono spesso per disidratazione oltre che per fame, data la carenza di insetti).

Centri di recupero animali selvatici

Rivolgersi alla Polizia Provinciale, al Corpo Forestale dello Stato, al proprio veterinario per avere informazioni sulla presenza del centro di recupero più vicino; si fornisce il collegamento ad un elenco, non esaustivo, ma ampio, di diversi centri di soccorso per animali selvatici, in tutta Italia.


Numerose telefonate ed e-mail a SOS Ricci, riferiscono di informazioni avute “in giro“, dove si consiglia di rimettere in libertà i piccoli cuccioli di riccio, perchè, tanto, la natura li aiuterà a crescere e sopravvivere!
NON é così
: la sorte dei lattanti (sic!) e dei piccoli adolescenti, perchè sono incapaci di procurarsi cibo autonomamente, inoltre la loro immediata debilitazione li fa vittime della miasi (deposizione di uova di mosca, con successiva trasformazione in larve, che “divorano vivi” i piccoli!).